Novità in materia di impugnazione di estratto di ruolo e cartella di pagamento

FMS | 28 gennaio 2022
Novità in materia di impugnazione di estratto di ruolo e cartella di pagamento

La notizia ha forse avuto meno risalto di quello che avrebbe meritato, ma vale la pena di prenderla in considerazione: con l’art. 3 bis del LD 146/2021, la legge di conversione ha introdotto una modifica al quinto comma dell’art. 12 del DPR 602/73. Il testo in commento merita di essere riportato: la norma stabilisce infatti espressamente che “l’estratto di ruolo non è impugnabile”. 

Recita inoltre: “il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto ex art. 80, comma 4, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), D.M. 18 gennaio 2008, n. 40, per effetto delle verifiche di cui all’art. 48-bis, DPR n. 602/73, o, infine, per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione”. Si tratta di due novelle che meritano qualche considerazione.

In particolare, mette conto di evidenziare sia problemi di carattere interpretativo, sia problemi di compatibilità con i principi generali dell’Ordinamento, tanto in una prospettiva costituzionale quanto in una prospettiva Eurounitaria. Per quanto attiene ai profili interpretativi, si deve osservare quanto segue. Anzitutto, sulla non impugnabilità dell’estratto di ruolo: abbiamo serie difficoltà a comprendere il significato e la ratio di questa norma. L’estratto di ruolo, in sé, non è mai stato annoverato tra quelli impugnabili ex art. 19 d.lgs. 546/92.

E questo anche alla luce dell’interpretazione estensiva che nel corso degli anni la Cassazione ha dato del catalogo contenuto in quell’articolo: la giurisprudenza di legittimità ha sempre escluso l’autonoma impugnabilità dell’estratto di ruolo.

In realtà, esso è sempre stato considerato uno strumento di conoscenza dell’esistenza del ruolo da part del contribuente, il quale, secondo la strategia difensiva prescelta, poteva impugnare alternativamente il ruolo stesso, ovvero anche uno o più atti presupposti, con impugnazione cosiddetta “al buio” secondo il disposto dell’art. 19 comma 3 d.lgs. 546/92.

L’esclusione per legge dell’impugnabilità dell’estratto di ruolo appare quindi incomprensibile. L’interprete si trova perciò di fronte ad un bivio: o considerare l’introduzione della previsione in parola un mero infortunio del legislatore; oppure immaginare che il senso dell’espressione utilizzata vada intesa nel senso che il ruolo, di cui il contribuente sia venuto a conoscenza tramite estratto – e non, quindi, tramite un altro degli atti tipici con cui viene veicolata la pretesa tributaria – non sia impugnabile se non alle condizioni dettate nell’articolo che segue.

Intesa in questo senso, la regola potrebbe trovare una sua ragionevolezza, salvo quanto si dirà poco oltre, nel senso di precludere il diritto di contestare la pretesa tributaria – o l’attività di riscossione – a chi non sia destinatario di uno specifico atto, e solo nei termini di impugnazione previsti per questo. In questa prospettiva, si può procedere alla disamina della seconda delle statuizioni che ci occupano. Ora, qui, il punto centrale, ai fini interpretativi, è la parte iniziale del comma: “il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui…”. Il primo elemento di dubbio si può individuare nella congiunzione “e”: non è chiaro infatti se il legislatore intenda affermare che le limitazioni valgono per l’impugnazione del ruolo effettuata unitamente a quella della cartella, per vizio di notifica, ovvero se esse riguardino l’impugnazione del ruolo ed anche, disgiuntamente, l’impugnazione della cartella.

Peraltro, entrambe le opzioni sono problematiche; quanto alla prima: perché, sebbene l’art. 19, comma 1 lettera d) preveda l’impugnabilità del ruolo, data la natura interna dell’atto, esso può essere impugnato comunque solo se viene portato a conoscenza del contribuente tramite un successivo atto. Di conseguenza, poiché il ruolo viene definito solo dopo la cristallizzazione del debito erariale, il primo atto con cui esso viene comunicato è la cartella di pagamento. Dunque, si deve vagliare la seconda ipotesi: la norma cioè va interpretata nel senso della non impugnabilità del ruolo unicamente alla cartella se non alle condizioni indicate; questa, come accennavamo poco sopra, sarebbe la via per giustificare la prima prescrizione riportata, conferendo un quadro di coerenza e logicità all’intero articolato, dovendosi solo soprassedere riguardo alla sciatteria del legislatore nella scelta e nell’utilizzo dei termini.

Ne deriverebbe che il senso complessivo della norma è riassumibile così: il ruolo non è impugnabile se non portato a conoscenza del contribuente tramite la cartella di pagamento; in questo caso, tuttavia, se il motivo di impugnazione è l’invalidità della notifica, il ricorso può essere proposto solo se dalla persistenza del ruolo possono derivare le sole conseguenze specificamente indicate. Purtroppo, questa interpretazione, che in sé gode di apparente logicità, appare difficoltosa per ragioni di ordine sistematico. Infatti: per il principio della corretta formazione della pretesa erariale (su cui si tornerà infra), il vizio di notifica dell’atto antecedente va considerato anche un vizio proprio dell’atto successivo, quindi permarrebbe la possibilità di impugnare il ruolo unitamente ad un atto successivo alla cartella di pagamento, quale ad esempio il preavviso di iscrizione ipotecaria, e, in questo caso, senza vincoli.

Il che appare quantomeno paradossale. Ad ogni modo, le difficoltà interpretative delle norme in parola, a nostro parere, non appaiono superabili: starà alla giurisprudenza individuarne i canoni applicativi più opportuni. Chiariti i dubbi circa il testo delle norme, si deve però passare ai problemi, estremamente significativi, riguardo alla loro introduzione, ossia quelli di compatibilità con i principi generali dell’Ordinamento nazionale e comunitario. La prima considerazione che occorre formulare muove dall’art. 1, comma 2 del d.lgs. 546/92. Si tratta della norma che stabilisce l’applicabilità al processo tributario delle norme del Codice di procedura civile, per quanto non disciplinato dal Decreto e in quanto compatibili. Tra le norme indiscutibilmente applicabili al contenzioso tributario vi è quella contenuta nell’art. 100 c.p.c., che pone quale condizione dell’azione l’interesse ad agire.

Il che impone di escludere che il contribuente possa impugnare la cartella di pagamento ed il ruolo ad essa sotteso per il fine puramente astratto di rimuovere un atto che ritiene illegittimo: con l’introduzione del giudizio deve perseguire un obiettivo concreto ed apprezzabile, in mancanza del quale l’azione non è ammissibile. Ne consegue che la novella che ci occupa prevede ipotesi in cui al contribuente, in presenza di un atto illegittimo e della possibilità di patire, in conseguenza di quell’atto illegittimo, un concreto pregiudizio, comunque non può comunque godere di tutela giurisdizionale. Letta così, la norma si pone in evidente contrasto con la Costituzione, ed in particolare con gli articoli 24 e 113, che assicurano la possibilità di accesso alla giurisdizione in generale, ed in particolare per gli atti amministrativi, senza limitazioni.

Non solo: appare violato anche l’art. 97 Cost., che detta il principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione, perché escludendo l’impugnabilità di un atto in certe circostanze, sostanzialmente si legittima in quei casi un cattivo operato degli Enti. Anche la conformità agli articoli 41 e 47 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo appare fortemente dubbia: non sembra infatti possibile conciliare il diritto incomprimibile al ricorso, il diritto ad una buona amministrazione, e la previsione di consentire alla PA di male operare se i pregiudizi creati non appartengono ad alcune categorie tipizzate dalla norma.

Non parte verosimile, quindi, che le norme in discussione potranno reggere al vaglio di costituzionalità. In termini di compatibilità con l’Ordinamento, vi è poi un altro profilo da ricordare. Gli atti dell’Amministrazione Finanziaria, e quelli della riscossione, in quanto atto amministrativi, sono soggetti alla disciplina contenuta nella l. 241/90, pur con le loro specificità. Per questo motivo la giurisprudenza di legittimità, con orientamento assolutamente consolidato, ritiene sussistere il principio della necessità di corretta formazione della pretesa tributaria. Vale la pena di richiamare la pronuncia più nota e rilevante sul punto, ossia la Sentenza delle Sezioni Unite n. 5791 del 2008, secondo cui “in materia di riscossione delle imposte” “la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario”.

Dunque, la notifica dell’atto è coessenziale alla legittimità stessa dell’attività riscossiva: la limitazione di questo principio appare davvero una forzatura intollerabile a livello sistematico, contenendo una compressione dei diritti del cittadino priva di qualsivoglia giustificazione. A questo proposito, va formulata un’ultima riflessione. Se, come pare evidente, l’intento delle novità di cui abbiamo dato conto è quello deflattivo, anche a voler concedere che la necessità di decongestionare l’attività della giurisdizione tributaria giustifichi la compressione di diritti costituzionali e di princìpi generali, comunque è necessario affermare che l’obiettivo individuato dal legislatore non verrà raggiunto.

Infatti: se dopo la notifica – ancorché viziata – avviene il pagamento del dovuto, non viene comunque generato contenzioso, a prescindere dall’eventuale illegittimità dell’atto. Se invece il contribuente intende far valere i propri diritti in sede giurisdizionale, potrà limitarsi a far valere il vizio di notifica della cartella di pagamento allorquando gli verrà notificato un ulteriore atto da parte del riscossore: in mancanza di questa ulteriore notifica non patirà alcun pregiudizio – in assenza, peraltro, anche di vantaggi per l’Erario – mentre con l’impugnazione successiva godrà di tutela giurisdizionale piena. Oltre che di difficile interpretazione e di dubbia legittimità costituzionale, quindi, le norme qui esaminate appaiono, in definitiva, anche inutili.

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