Illegittimo il licenziamento del lavoratore sottoposto a controlli da parte di un detective privato relativamente alle obbligazioni lavorative

FMS | 10 ottobre 2022
Illegittimo il licenziamento del lavoratore sottoposto a controlli da parte di un detective privato relativamente alle obbligazioni lavorative

Con una recente pronuncia (Cass. Sez. Lavoro 24.8.2022, n. 25287), la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema dei limiti all’utilizzo di agenzie investigative per l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti nel rapporto di lavoro. 

La Suprema Corte aveva già infatti esaminato la problematica, con la sentenza n. 8373/2018, con la quale aveva stabilito che la garanzia dettata dall’art. 2 Stat. Lav. non preclude al datore di lavoro di ricorrere alle agenzie investigative per tutelare il patrimonio aziendale, affermando inoltre che detto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili in alcun modo né all'adempimento né all'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera. La sentenza 21621/2018 aveva poi specificato che il rispetto dell’orario lavorativo attiene strettamente all’adempimento della prestazione e, pertanto, può essere accertato dal solo datore di lavoro in via diretta o attraverso la propria organizzazione gerarchica, non potendo essere oggetto di indagine da parte di soggetti terzi.

Da ultimo, prima dell’ordinanza in commento, la Suprema Corte con ordinanza 6174/2019 aveva respinto un ricorso di un lavoratore, ribadendo l’orientamento secondo cui i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo Il fatto da cui origina l’ordinanza in commento riguarda il caso di un dipendente di un istituto bancario la cui attività lavorativa era connotata da flessibilità riguardo all'orario e alla sede di svolgimento dell'attività (la Suprema Corte non fornisce maggiori dettagli nella sentenza sulle concrete modalità di attuazione della flessibilità lavorativa).

A tale dipendente era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro, in orario lavorativo, per ragioni completamente estranee rispetto all’ambito della sua prestazione e delle sue mansioni. In particolare, erano stati filmati, mediante controlli effettuati da agenzia investigativa, incontri estranei all'area o sede di lavoro (supermercati e palestre), non connessi all'attività lavorativa, in luoghi distanti anche decine di chilometri dalla sede di lavoro. Dopo aver contestato tali circostanze al dipendente, l’istituto bancario aveva proceduto con il licenziamento del lavoratore.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziato; il ricorso era stato rigettato sia in primo grado sia in sede di appello. In particolare, la Corte d’Appello di Roma aveva ritenuto che i controlli effettuati mediante agenzia investigativa privata fossero legittimi per due diverse ragioni: il lavoratore era dipendente di banca e pertanto nell’ambito di tale rapporto è richiesto un rispetto particolarmente rigoroso dell’obbligo di fedeltà e dei correlati canoni di correttezza e buona fede; tali controlli erano stati effettuati nell’ambito di indagini relative a presunte violazioni nell’utilizzo dei permessi ex legge 104 da parte di una collega, con la quale il ricorrente era stato ripreso più volte. La Corte d’Appello, pertanto, in modo molto singolare, sembra sostenere che un controllo che, se effettuato direttamente nei confronti di un lavoratore è illegittimo, diventa legittimo se le informazioni sono reperite in maniera indiretta durante indagini nei confronti di un collega.

Il lavoratore ha proposto, quindi, ricorso per cassazione, contestando la violazione degli artt. 2, 3 e 4 della legge 300/1970 rilevando come il controllo mediante agenzia investigativa debba limitarsi ad atti illeciti e non al controllo circa la correttezza o meno nello svolgimento della prestazione da parte del lavoratore, non potendo sconfinare nella vigilanza sull’attività lavorativa, riservata dall’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori al controllo del datore di lavoro, direttamente o mediante i suoi sottoposti.

Il ricorrente contestava, peraltro, la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, in relazione alla violazione del diritto di difesa del lavoratore e il mancato rispetto delle garanzie imposte dallo Statuto, perché non era stata ammessa la produzione richiesta dal ricorrente relativa al suo fascicolo personale. La Cassazione accoglieva il ricorso del lavoratore. In particolare il relazione al primo profilo di impugnazione la Suprema Corte ribadiva che: “in ordine alla portata della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3, i quali delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3) - che essi non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti, esterni (come, nella specie, un'agenzia investigativa), ancorché il controllo non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta a tale vigilanza. Il controllo esterno, quindi, deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione (cfr., in tali termini, Cass. n. 9167 del 2003)”.

Prosegue quindi la Cassazione: “tale principio è stato costantemente ribadito, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Ne resta giustificato l'intervento, pertanto, solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017). Ai controlli al di fuori dei confini indicati ostano sia il principio di buona fede sia il divieto, clj, cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, nella formulazione applicabile ratione temporis, vigendo il divieto di controllo occulto sull'attività lavorativa anche nel caso di prestazioni lavorative svolte al di fuori dei locali aziendali, ferma restando l'eccezione rappresentata dai casi in cui il ricorso ad investigatori privati sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti (come l'esercizio durante l'orario lavorativo di attività retribuita in favore di terzi su cui v. Cass. nn. 5269 e 14383 del 2000)”. Pertanto la Suprema Corte conclude: “risulta, dunque, erronea la sussunzione della fattispecie concreta nella norma astratta operata dalla Corte, poiché l'attività investigativa mediante controllo esterno, ancorché occasionata da analogo, pur legittimo, controllo nei confronti di altro dipendente, esplicandosi nell'orario di lavoro del ricorrente, cioè durante l'espletamento dell'attività lavorativa da parte sua, finisce con l'incidere direttamente e, quindi, al di fuori dei limiti consentiti, su detta attività (Cass. n. 23732 del 2021)”. La Cassazione accoglie anche il terzo motivo di posizione, precisando come sia necessario che “in tema di procedimento disciplinare il datore di lavoro, pur non essendovi obbligato dall'art. 7 Stat. Lav., offra all'incolpato la documentazione necessaria al fine di consentirgli un'adeguata difesa, e ciò in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (Cass. 27/3/2018 n. 7581)”.

Le conclusioni a cui giunge la sentenza in commento sono discutibili anche sulla base dei precedenti giurisprudenziali. In primo luogo, non convince e non si comprende perché se il potere di controllo (tipico potere tipico datoriale) possa essere delegato a un proprio dipendente e non invece a un collaboratore esterno. Sul punto, infatti la Cassazione si limita a richiamare il contenuto dell’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori, senza soffermarsi sulla ratio di tale disposizione e sull’effettivo ambito di applicazione della norma. In secondo luogo, si può desumere dalla sentenza che quando la Cassazione fa riferimento a un illecito del lavoratore (che rende legittimo l’affidamento del controllo all’agenzia investigativa) intenda un illecito di natura penale. Qualora si volesse infatti far riferimento all’illecito in un’accezione più ampia occorre rilevare che l’inadempimento è per sua stessa definizione un illecito contrattuale. Orbene, nel caso oggetto della sentenza in commento, è presumibile che ciò che viene contestato al lavoratore non sia il mancato rispetto dell’orario di lavoro (e considerata la flessibilità oraria non sarebbe stata neppure possibile una simile contestazione), ma il fatto che il lavoratore ha dichiarato di lavorare in un determinato arco temporale e che, in realtà in quel lasso di tempo, si stesse dedicando ad attività extralavorative.

A detta di scrive, il caso in esame potrebbe anche configurare una truffa: infatti il lavoratore attraverso artifizi o raggiri ha indotto in errore il proprio datore di lavoro, che, a causa di questa rappresentazione falsa della realtà, ha erogato una somma di denaro al dipendente. Una simile riflessione poteva e doveva essere sviluppata dalla Cassazione anche alla luce della citata sentenza 6174/2019, nella quale la Suprema Corte aveva ritenuto legittimo il controllo affidato all’agenzia investigativa nei confronti di un lavoratore che si era ripetutamente allontanato dal posto di lavoro durante l’orario di servizio, rimanendo assente per diverso tempo, senza timbrare il badge in uscita e facendo così risultare la regolare presenza in servizio. L’illecito, dunque, consisteva nell’aver dolosamente creato una situazione apparente al fine di indurre in errore il datore di lavoro sulla presenza sul luogo di lavoro. E non si evidenziano, tra le fattispecie oggetto d’esame delle due sentenze, differenze tali da portare a due soluzioni opposte.

Da ultimo e in conclusione, non va sottovalutato il passaggio con il quale la Corte di Cassazione ribadisce i confini (ampi) entro i quali si esplica il diritto di difesa del lavoratore di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo la Suprema Corte, infatti, non consentire al lavoratore di visionare o di ottenere l’esibizione di documentazione attinente al proprio fascicolo personale costituisce di per sé una violazione del diritto di difesa che rende pertanto illegittimo il successivo provvedimento sanzionatorio.

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