N.F.T e dintorni: alcune questioni giuridiche

FMS | 17 gennaio 2022
N.F.T e dintorni: alcune questioni giuridiche

I non fungible tokens stanno diventando – anche se meno rapidamente di quanto sarebbe lecito attendersi - argomento di discussione e dibattito, soprattutto per via della loro capacità di facilitare la circolazione di alcune categorie di beni, che li rende un formidabile strumento per la creazione di nuovi mercati, o anche per la ridefinizione del funzionamento di vecchi mercati. 

La loro diffusione ed il loro utilizzo pongono diverse questioni giuridiche. Si tratta di problemi che, ad oggi, non hanno trovato molto spazio in dottrina, forse per via del fatto che l’interesse dei giuristi è stato quasi completamente assorbito dalle criptovalute, che con i NFT condividono il legame con la tecnologia della blockchain.\

La differenza tra i due strumenti, tuttavia, è tale da renderne la qualificazione giuridica molto diversa, così come diversi sono gli interrogativi che essi devono suscitare nel giurista, che assuma la qualifica di interprete o di legislatore. Prima di entrare nel merito di tali interrogativi, occorre dunque una premessa metodologica.

Lo strumento principale per l’analisi giuridica dei fatti è la categoria: l’inquadramento avviene tramite un procedimento che, strutturalmente, ha carattere induttivo, e consiste nel sussumere un fenomeno all’interno di una o più delle categorie che compongono l’Ordinamento. Per compiere questa operazione, che in sostanza è l’oggetto del presente scritto, occorre quindi, e anzitutto, procedere all’individuazione degli elementi concreti che consentano di operare la prima operazione di astrazione necessaria alla sussunzione, ossia la traduzione del fatto in fattispecie. Si deve quindi anzitutto cercare di dare una spiegazione di cos’è un NFT, che non abbia una valenza tecnica, ma che consenta di piegare i concetti di natura tecnica alle finalità proposte. Dunque: in estrema sintesi, Un non-fungible token è un tipo speciale di token crittografico che rappresenta l'atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su Blockchain di un bene unico (digitale o fisico).

Chi acquista un artefatto legata a un non-fungible token non acquista il bene in sé, ma semplicemente la possibilità di dimostrare un diritto sull’opera, garantito tramite uno smart contract. La circolazione dei beni tramite questo strumento avviene quindi a partire da una versione digitale dell’opera d’arte. Tipicamente, si usa una foto digitale o una sua documentazione filmata e salvata in formato digitale, che viene compressa in una sequenza, chiamata hash, derivata da essa ma molto più corta, con un processo non invertibile conosciuto come hashing. Il passo successivo è la memorizzazione di questo hash su una blockchain, con una marca temporale associata.

Quello che occorre osservare in questa sede è che l’NFT contiene una quantità molto ridotta di dati. Anche per una questione di energia impiegata e di spazio disponibile, non è infatti possibile inserire nella blockchain file di grandi dimensioni (che finirebbero per appesantire tutta la catena), ma solo pochi elementi (l’hash del file insieme ad alcune proprietà). La creazione dell’NFT quindi consiste nella creazione dell’hash e nella sua successiva cristallizzazione sulla blockchain.\

Di conseguenza, in sintesi, le caratteristiche qualificanti l’NFT sono: la non fungibilità, la certezza della titolarità e la certezza dell’autenticità e della provenienza dell’oggetto in esso digitalmente descritto. Lo strumento di circolazione degli NFT è lo smart contract: si tratta, in estrema sintesi, di funzioni “if/then” di natura algoritmica incorporate in software o protocolli informatici, che sono in grado di operare sulla blockchain.\

L’individuazione di questi elementi, come detto, non ha alcuna pretesa di esaustività, ma è quello che occorre per poter osservare il fenomeno dei NFT dalla prospettiva del diritto. In particolare, a nostro avviso, occorre incamminarsi lungo due direttrici di analisi: la prima, di carattere generale, riguarda la capacità di questi strumenti tecnologici e digitali di imporre, o anche solo determinare, il superamento dei tradizionali istituti e concetti tipici del diritto privato e del diritto commerciale, quali quello di bene, proprietà, contratto, possesso, proprietà intellettuale.

La seconda, più circoscritta e specifica, riguarda quali categorie siano idonee ad assumere al proprio interno NFT, blockchain e smart contract, e conseguentemente quale disciplina sia loro applicabile, ragionando de jure condito. Sebbene le due aree di indagine presentino evidenti profili di interdipendenza, si ritiene che esse debbano essere oggetto di disamina separata; e, poiché la soluzione alla prima categoria di problemi, ancorché costituisca l’antecedente logico-giuridico della soluzione della prima, in realtà ne è in pratica la conseguenza, si procederà dal particolare al generale, e non viceversa.\

Dunque, la prima domanda cui si deve tentare di dare una risposta è cosa sia in termini giuridici, un NFT. I pochi commentatori che hanno preso posizione al riguardo li hanno definiti come beni immateriali. Con la premessa che l’intendimento del presente articolo è di avviare un dibattito, e non offrire posizioni tetragone, dobbiamo rilevare che tale scelta soffre di alcune criticità, tali da renderla non del tutto persuasiva. Infatti, la nozione di bene è quella contenuta nell’articolo 810 del Codice civile, secondi cui è bene qualunque cosa possa formare oggetto di diritti. Ora, non merita di soffermarsi sulla possibilità di esistenza di un bene immateriale, ormai acquisita; ma l’assoggettabilità a diritti del NFT in quanto tale appare problematica: infatti, per vie delle proprietà che lo caratterizzano, esso appare più come uno strumento di circolazione di beni, ovvero anche come un vettore di una certificazione dell’esistenza di diritti su qualcosa che è altro da sé.

Sembra che si possa esercitare il possesso sull’NFT, ma la proprietà implica il diritto di godimento, che non riguarda l’NFT ma l’oggetto la cui titolarità esso certifica. Questo influisce anche sul problema della circolazione dell’NFT: occorre chiarire se ed in che termini essa implica automaticamente il trasferimento del bene richiamato. Il problema della circolazione è ancora più complesso se si considera che, almeno in questa fase iniziale della sua esistenza come strumento diffuso di commercio, l’NFT viene utilizzato prevalentemente nell’ambito del mercato dell’arte.

Ne consegue la necessità del coordinamento con la disciplina del diritto d’autore. Riguardo a questo aspetto: ogni tipologia di espressione artistica determina il sorgere di diversi diritti connessi al diritto d’autore. Tali diritti, a mente dell’art. 19 della l. 633/41, sono suscettibili di autonoma ed indipendente circolazione: cedere un’opera d’arte figurativa, ad esempio, non necessariamente comporta il trasferimento all’acquirente del diritto di esporla, riprodurla o rielaborarla, oltre a far sorgere in capo all’autore il diritto a percepire una parte del ricavato da future rivendite.

La particolare modalità di circolazione degli NFT rende molto semplice ricostruire le transazioni che hanno avuto per oggetto l’opera, e la loro struttura consente un agevole accertamento dell’autenticità della stessa, tuttavia, essi non sono idonei a disciplinare compiutamente il rapporto tra cedente e cessionario del bene. Peraltro, anche se non è questa la sede per approfondire l’argomento, è il caso di rilevare che la questione accennata ricalca le difficoltà di utilizzare il diritto di proprietà in riferimento alle opere dell’ingegno protette da diritto d’autore. Vi è poi un ulteriore ordine di problemi, che riguarda il rapporto tra NFT e blockchain. Una volta che l’NFT è cristallizzato nella blockchain, e viene, per così dire, incorporato in essa, l’autenticità e la titolarità dell’NFT e di ciò di cui esso costituisce rappresentazione sono certificati. Non appare ad oggi chiaro con quale valore, però: non è stato cioè discusso se l’inclusione del NFT nella blockchain abbia valore costitutivo, essendo quindi di per sé sufficiente a determinare il passaggio di proprietà, ovvero se tale inclusione debba essere legittimamente attuata quale effetto di un contratto stipulato separatamente. Secondo alcuni, l’NFT è esso stesso un contratto: questo però non può essere affermato con certezza, perché solo una parte dell’oggetto vi è certamente descritta a sufficienza da poter essere considerata determinata (o determinabile) secondo il dettato del’lar.t 1346 del Codice civile. Analogo problema si pone per lo smart contract: esso non necessariamente è da considerare alla stregua di un contratto, ed anzi, nella pratica non lo è quasi mai.

È, piuttosto, uno strumento di attuazione di un contratto, ovvero può integrare o costituire una clausola collocata nel contesto di un più ampio contratto.

Sul tema in effetti si confrontano due scuole di pensiero: quella secondo cui lo smart contract è un contratto e quella secondo cui non lo è. Noi, come detto, ci collochiamo in una posizione intermedia: non si può escludere che tale strumento possa avere tutte le caratteristiche di un contratto, né si può affermare che le possegga sempre. In realtà, pur concordando sulla natura negoziale dello smart contract, riteniamo che si debba valutare caso per caso quale natura rivesta. Del resto, il tema della compatibilità con la disciplina dei contratti è estremamente ampio: senza voler precorrere i tempi, si ritiene che gli strumenti tecnologici che ci occupano dovranno dare luogo ad una nuova fattispecie di contratto complesso, inteso, però, non nella tradizionale accezione di contratto che si compone di più tipologie tra quelle tipizzate dal codice, ma che è concluso tramite una pluralità coordinata di strumenti diversi. L’assetto complessivo di interessi troverà quindi la sua regolamentazione complessiva in un insieme di fonti, univocamente interconnesse, ed interpretabili tramite l’applicazione analogica del criterio contenuto nell’art. 1363 del Codice civile.

Infine, anche la blockchain pone una serie di questioni di diritto: in particolare, essendo in sostanza una banca dati non alterabile senza l’intervento dei titolari stessi, occorrerà che la dottrina si interroghi sulla sua natura: si dovrà chiarire se vada assimilata ad un pubblico registro, alla copia autentica di un atto pubblico, ad una riproduzione meccanica così come contemplata dall’art. 1712 del Codice civile. Gli interrogativi sopra riassunti derivano dal fatto che la certezza dei dati contenuti nella blockchain deriva da un fatto tecnico, ma non da un fatto giuridico. Non solo: la tecnologia che sta alla base della blockchain è la cosiddetta DLT, ossia Distributed Ledger Thecnology: essa si serve di database (in gergo ‘registro') la cui gestione è condivisa tra gli utenti (in gergo ‘nodi'), di modo che siano completamente decentralizzati e, dunque, non occorra alcun intermediario per la fruizione o la consultazione dei dati conservati. Si tratta, in sintesi, di grandi networks all'interno dei quali i nodi partecipano, in modo paritetico, contemporaneamente e autonomamente alla strutturazione del registro. Tutti gli aggiornamenti al registro originario sono effettuati da ciascun nodo senza che vi debba essere alcuna previa verifica da parte di un amministratore centrale. Ciò non significa, tuttavia, che il controllo non esista: ciascuna operazione effettuata, infatti, dev'essere votata ed approvata da ciascun nodo appartenente alla rete e, pertanto, l'autonomia del nodo è subordinata, di fatto, ad una modalità denominata “protocollo del consenso” (consensus mechanism) atta ad avallare le operazioni svolte. L'espressione protocollo del consenso va intesa nel significato prettamente tecnico

informatico, piuttosto che tecnico-giuridico, giacché essa si riferisce all'algoritmo decisionale in base al quale i nodi avallano le singole transazioni registrate all'interno del sistema. L’utilizzo di questo tipo di tecnologia pone una ulteriore serie di interrogativi: il primo dei quali è se e come sia possibile attribuire all’NFT registrato su blockchain una collocazione fisica, il che influisce sull’applicazione alla circolazione degli stessi delle norme sul luogo di conclusione ed esecuzione del contratto. Da cui derivano ulteriori difficoltà applicative per l’ipotesi che insorga un contenzioso: individuare la competenza per territorio, la giurisdizione, o persino la legge applicabile potrebbe essere estremamente difficile. Non solo: quello che appare, ad oggi, forse il problema di più difficile soluzione è che, in assenza di una compiuta regolamentazione sovranazionale, una pronuncia giudiziale, comunque ottenuta, che contenesse una condanna riguardante attività da svolgere su blockchain sarebbe sostanzialmente incoercibile, anche tramite il ricorso agli strumenti di cui all’art. 612 c.p.c.

Da ultimo, occorre dare conto di un recente intervento legislativo con cui il legislatore italiano, con ammirevole anticipo sulla maggioranza dei paesi europei, sebbene non con altrettanto ammirevole qualità nella tecnica di redazione della norma, ha tentato un primo timido intervento di disciplina di blockchain e smart contract. Ci riferiamo alla legge n. 12 dell’11 febbraio 2019, che, in sede di conversione del D.L. 135 del 14 dicembre 2018 (c.d. Decreto Semplificazione) vi ha introdotto l’art. 8 ter. Il primo comma statuisce che si definiscono "tecnologie basate su registri distribuiti" le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l'aggiornamento e l'archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili. Il secondo comma invece recita: Si definisce "smart contract" un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall'Agenzia per l'Italia digitale con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

Come si vede, si tratta di norme di carattere definitorio che non fanno molto altro che riprendere gli elementi acquisiti dalla prassi e trasfonderli nell’articolato. Il terzo comma sembra invece contenere un tentativo di risolvere uno dei problemi che abbiamo sopra sinteticamente cercato di descrivere, perché afferma che: La memorizzazione di un documento informatico attraverso l'uso di tecnologie basate su registri distribuiti produce gli effetti giuridici della validazione temporale elettronica di cui all'articolo 41 del regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014.

Il problema è che si tratta di uno sforzo non produttivo di risultati apprezzabili, dal momento che non viene chiarito il valore della menzionata validazione temporale, né come essa si coordini con la disciplina della prova contenuta nel Codice civile. Infine, il quarto comma stabilisce che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l'Agenzia per l'Italia digitale individua gli standard tecnici che le tecnologie basate su registri distribuiti debbono possedere ai fini della produzione degli effetti di cui al comma 3. Superfluo rilevare che l’AGID non ha ancora provveduto in tal senso, il che, per ora, impone di sospendere il giudizio. Sulla base di tutte queste considerazioni, e conclusivamente, si può quindi tentare di dare una risposta al primo dei quesiti che ci ponevamo in premessa, e cioè se la tecnologia introdotta dagli strumenti in disamina richieda una riconcettualizzazione delle categoria giuridiche del diritto privato.

Pur nell’inevitabile incertezza dovuta alla fase iniziale in cui si trova, ad oggi, lo studio in termini giuridici di questi fenomeni, riteniamo che la risposta preferibile sia quella negativa. Se è vero, da un lato, che nessuno contratto può essere compiutamente giudicato e compreso prescindendo completamente dallo strumento tramite cui esso è stipulato, è altrettanto vero, per converso, che nessuno strumento consente di superare la necessità della volontà concorde delle parti, della determinatezza o determinabilità dell’oggetto, della causa. La formidabile caratteristica degli istituti del diritto contrattuale, e del diritto privato in genere, infatti, è che essi sono straordinariamente adattivi: il fatto che una clausola contrattuale possa essere contenuta in uno smart contract o inserita in un token crittografico non creano alcun genere di problema, applicativo o interpretativo; al contrario, nessuno studioso potrà verosimilmente accettare la possibilità che sorgano rapporti obbligatori nella totale assenza di un atto di volizione da parte di coloro che vi si assoggettano. Analogamente, pur con i profili di criticità che si sono brevemente evidenziati nella ricognizione che precede, non vi sono significativi ostacoli a sussumere il NFT all’interno della nozione giuridica di bene: sono possibili opzioni diverse, certamente, per esempio derivanti dalle analogie che si potrebbero cogliere tra i NFT ed i titoli di credito, tuttavia la conclusione cui ci sembra di dover giungere è che non occorre l’introduzione di un nuovo genus per poter costruire la disciplina di questi strumenti.\

In questa prospettiva, forse, gli sforzi del legislatore non dovrebbe concentrarsi sull’attività definitoria, per due ordini di ragioni. La prima è che, come detto, gli strumenti giuridici che oggi abbiamo a disposizione sono proteiformi, e quindi in grado di aderire con efficacia più che soddisfacente a tutte le novità che la tecnologia ci propone. La seconda, e forse più significativa, è che quanto più una definizione è accurata, tanto meno è longeva: la vorticosa rapidità con cui evolvono gli strumenti informatici è infatti tale che è lecito attendersi una rapidissima obsolescenza delle scelte terminologiche e descrittive.

I piani di azione che ci sembra doveroso individuare, de jure condendo, sono quelli del valore probatorio, del valore (eventualmente costitutivo), dell’idoneità a sostituire i pubblici registri, quanto alla blockchain; della coercibilità, e dei profili di transnazionalità, quanto alle fattispecie di carattere negoziale; della tipologia di diritti cui assoggettarli, quanto agli NFT.

Avv. Michele Branzoli

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